Coronavirus, dall'incubo alla liberazione
Diario di una quarantena
È stata dura.
È stata dura affrontare questi tre mesi, stare a contatto con la cerchia ristretta di persone della mia famiglia, vedere sempre gli stessi volti, sentire sempre le stesse voci e fare tutti i giorni le stesse cose. Ogni giorno sembrava il continuo di quello prima, come se questi tre mesi fossero stati un’unica lunghissima giornata e, devo essere sincera, non riuscivo proprio a vederne la fine.
Marzo
Il primo mese, quello di marzo, è stato il più leggero psicologicamente: una vacanza dalla scuola, dalla danza, dall’alzarsi presto la mattina, dalle interrogazioni e dalle corse della vita frenetica che vivevo. Amavo la mia quotidianità prima di tutto questo, ma non me ne ero mai resa davvero conto. Ero troppo impegnata, forse, a ripetermi “Dio, quanto sono stanca”, “Quando finisce la scuola?”, “Non ne posso davvero più!”.
Mi manca essere stanca, mi manca la scuola, mi manca mettermi a letto e avere quel senso di soddisfazione per come avevo affrontato la mia giornata e per quello che era successo. Mi manca allo stesso modo la tristezza di alcuni giorni, quando arrivavo a sera pensando all’interrogazione della mattina andata per il verso sbagliato, all’arrabbiatura per una litigata con le mie amiche, all’aver preso l’acqua aspettando l’autobus sotto la pioggia e, oltretutto, averlo perso e aver dovuto aspettare quello dopo, sempre sotto il diluvio. Prima d’ora non mi ero mai resa conto di quanto fosse bello non riuscire a stare ferma neanche un secondo per i troppi impegni, non mi ero mai resa conto di quanto fosse bello vivere esperienze e provare emozioni, brutte o belle che fossero.
Tre mesi qui, in casa, dove le emozioni c’erano, ma erano limitate a loro stesse. Un misto tra nostalgia, tristezza, stanchezza perenne, rintronamento, disapprovazione per tutto ciò che stava succedendo intorno, ma allo stesso tempo molto distante da me. Riuscivo a percepire il panico generale anche a migliaia e migliaia di chilometri di distanza: era palpabile la paura che c’era nell’aria, tanto da riuscire a colmare le strade che, invece, almeno fisicamente, erano vuote. Eravamo a ridosso della primavera: la voglia generale di uscire e fare una camminata tra i mandorli in fiore era fortissima, ma l’idea di un possibile nuovo picco della malattia e di ricominciare tutto da capo, ha impedito all’istinto di prendere il sopravvento.
Così è passato un altro mese. Un mese in cui ci siamo resi conto di quanto fosse tutto surreale e di quanto, il passato, può rapidamente tornare a essere presente: il Covid-19 viene definito “pandemia”. Mi vergogno a scriverlo, ma la prima cosa che feci appena udii questa parola fu prendere il mio dizionario “i Garzantini” e cercarla.
“Pandemia [pan-de-mì-a]: epidemia a diffusione vastissima”.
Paura. Buio. Vuoto totale.
Aprile
Aprile è stato credo il periodo più babelico della mia vita. La didattica a distanza mi ha destabilizzata (e non poco), ma ancor più delle videolezioni mi ha destabilizzato vedere mia madre uscire per andare a fare la spesa e tornare ore e ore dopo riportando con sé, oltre alle provviste di cibo, foto di code, presenti fuori da ogni supermercato. Sono rimasta sconvolta perché quello che fino a quel momento avevo visto solo in cameretta, dallo schermo della mia televisione trentadue pollici, erano diventate realtà tangibile, dietro casa.
Come si dice? Finché non le vivi certe cose non puoi capirle. Ora ci credo, eccome.
Maggio
Arriviamo a maggio. Certo, non posso dire come andrà a finire ma dopo questo periodo tremendo, maggio è stato lindo. Un lindore davvero sincero: uno spiraglio di luce dopo il buio più totale. È stato bello tornare ad abbracciare i miei amici con tanto lirismo, anche troppo oserei dire. Mi mancava. C’è ancora tanto da fare per sanificare questo lividume, ma noi CE LA FAREMO, ne sono sicura.