La scuola in Italia: stress, depressione e omologazione
Dalle medie all'università gli studenti italiani sono vittima di problemi psicologici, molto più dei loro compagni europei
Il 17 novembre è stata la Giornata internazionale degli studenti, che però in Italia hanno ben poco da celebrare. Non è sorpresa che per l'ennesima volta delle statistiche indichino che gli studenti del nostro paese siano tra quelli più stressati e depressi d'Europa, e la pandemia, i metodi di valutazione sorpassati e una cultura della competizione e restia a ricorrere al supporto psicologico non aiutano.
Un'epidemia
I dati del report "Students" di OSCE parlano chiaro: gli studenti italiani generalmente non concepiscono la scuola come un ambiente sicuro e produttivo. Basti pensare che solo il 26% delle studentesse e il 17% dei loro compagni maschi si definiscono contenti di andarci. Per quanto riguarda le medie e le superiori, tra i banchi il 70% si sente preoccupato, rispetto alla media europea del 56%, che resta comunque abbastanza elevata. I compiti in classe invece rendono nervosi il 56% degli studenti italiani; la media europea è del 37%. Ma i dati negativi non finiscono qui: secondo Unicef quasi il 15% dei giovani tra i 10 e i 19 anni in Italia hanno ricevuto diagnosi di un disturbo mentale, che nel 40% dei casi consiste in ansia o depressione. E all'università non va meglio: secondo una ricerca di Porru, Robroek, Bultmann e Portoghese, il 5% degli iscritti negli atenei del nostro paese ha subito disagi psicologici, soprattutto relativi alla mancanza di certezze nel mondo del lavoro e di gratificazione degli sforzi per lo studio. Insomma, una vera propria epidemia di disturbi psicologici in quella che dovrebbe essere un'età se non spensierata, quantomeno positiva.
Priorità ai numeri, non alla crescita
Non è semplice comprendere le ragioni di un fenomeno di tale portata, ma è certo che più che ricercare le cause nell'individuo, andrebbero cercate nella società e nell'idea che abbiamo di scuola. Quella italiana si base su un sistema di valutazione fortemente uniformante, che non tiene conto della singolarità degli studenti e dei loro punti di partenza. Un metodo che diventa così centrale da far passare l'idea che il voto sia il punto di arrivo, rispetto a quanto si è capito, interiorizzato, pesanto. In altre parole, l'impegno non viene premiato con la consapevolezza di essersi formati e acculturati, facendo passi in avanti per diventare adulti consapevoli, bensì con un numero che può rappresentare ben poco la complessità di uno studente. Da qualche anno il Liceo Morgagni di Roma ha attivato una sezione sperimentale che non si avvale di un metodo di valutazione. Gli iscritti vengono sì esaminati dai professori, ma senza ricevere un voto numerico: ci si limita a sottolineare cosa è stato fatto bene e cosa andrebbe migliorato. In questo modo si evitano classifiche e competizioni inutili.
Una cultura della "competizione"
E qui arriviamo al secondo punto. La cultura italiana - così come quella occidentale in generale - è permeata dall'idea che la performance debba necessariamente portare a una competizione, anche in contesti in cui ci dovrebbe concentrare solo su se stessi. È il caso dell'esperienza scolastica, che invece di ruotare sulla crescita persona dello studente va per forza di cose a creare l'idea di una corsa verso uno standard rappresentato dal 6, dall'8, dal 10, e così via. Certamente non è un qualcosa di consapevole, generalmente l'obiettivo primario di un docente è quello di formare, ma l'esistenza stessa di una valutazione numerica non può che portare a dei paragoni tra "noi" e "loro" che non hanno senso di esistere, perché le inclinazioni, i punti di partenza e le aspirazioni non saranno mai le stesse.
La difficoltà di chiedere aiuto
Ma se i problemi psicologici continuano ad aumentare è anche colpa di un senso comune che ancora stigmatizza la necessità di chiedere aiuto, soprattutto se a un professionista. Un sondaggio di Eurodap del 2017 ha dimostrato che il 70% degli italiani ritiene superfluo andare dallo psicologo. Le motivazioni di questa tendenza restia si trovano nella difficoltà con cui gli studi psicologici si sono radicati in Italia (le prime facoltà sono state aperte poco più di quarant'anni fa), ma continuano a riflettersi sui giovani, figli di una cultura per cui l'introspezione è vista come inutile autocommiserazione.
Difronte a questi problemi sarebbe assurdo indicare una via d'uscita, un percorso "a tappe" volto a migliorare la condizione degli studenti italiani. Quello di cui c'è bisogno è una vera e propria rivoluzione dei modi di intendere la scuola, il lavoro, la società e se stessi.