Domenico Iannacone e la capacità di trasformare la fragilità in forza
Il giornalista ha conversato con i giovani speaker di Jolly Roger
Oggi ai microfoni di Jolly Roger - La radio pirata è intervenuto il giornalista Domenico Iannacone, un punto di riferimento nella divulgazione della diversità grazie alla sua capacità di raccontare i margini con grandissima sensibilità ed empatia. Le sue sono storie di persone fragili che, però, riescono a trasformare la loro fragilità in forza e risorsa. Nel suo programma Che ci faccio qui, Domenico ha raccontato la storia di Giulia Mazza, un musicista affetta da sordità, e quella di Maximiliano Ulivieri, attivista affetto da distrofia muscolare, oltre a tante altre storie nel docufilm sulla disabilità mentale L’Odissea.
Che insegnamento bisogna trarre da queste storie di marginalità e tu personalmente che cos’hai imparato?
Io imparo sempre qualcosa, è come se ogni volta attraverso la fragilità, la marginalità acquisissi una forza interiore in grado di farmi comprendere che cosa sono veramente i valori. Per me è una specie di palestra quotidiana che mi permette di guardare il mondo da altre angolazioni e capirlo meglio.
Quante interviste hai fatto? Ne hai una preferita?
A questa domanda posso rispondere in maniera lapidaria dicendo che ogni giorno potrei scegliere una storia diversa tra le più belle. Ne ho fatte tantissime, quindi ci sono dei giorni in cui un’intervista fatta anche tanti anni fa mi torna in mente e mi sembra la più bella di tutte, ma ogni volta è diversa anche in base alla sensibilità del momento.
Però posso tentare di sceglierne tre. In Molise, la mia regione, ho girato la storia di Pierpaolo, un uomo affetto dalla sindrome di Down che per vent’anni ha assistito la madre malata di Alzheimer: una storia incredibile, che mi ha fatto comprendere quanta tenerezza, quanto candore ci fosse tra questo uomo e questa donna di novant’anni che non ricordava più nulla. Ogni giorno Pierpaolo con una dolcezza infinita cercava di risvegliare attraverso parole dolci la memoria della mamma. Ecco, questa storia mi è rimasta dentro.
Poi sono molto vicino alla storia del Teatro Patologico, il magnifico teatro sulla via Cassia a Roma diretto da Dario D’Ambrosi, attore e regista che ha fatto del rapporto con la disabilità mentale una specie di missione di vita. Con loro sono andato in scena nella Medea, l’ho raccontato nell’Odissea, e poi ho partecipato a un film uscito da pochissimo nelle sale, Io sono un po' matto e tu?. Per me questa è un’altra storia strepitosa.
Poi sono rimasto profondamente vicino alla storia di Giulia, una violoncellista sorda che ha avuto la possibilità di suonare attraverso gli insegnamenti di Giulia Cremaschi, musicoterapeuta di Bergamo che nel corso di quarant’anni di attività ha permesso a persone sorde dalla nascita di sentire le vibrazioni della musica. È un’esperienza visionaria, quindi anche questa mi è rimasta dentro.
C’è spazio per raccontare la marginalità in televisione? Di solito è raro trovare racconti di marginalità e ancor più raro è girare il microfono, realizzando uno spazio veramente inclusivo. È difficile o in realtà ci sono spazi e opportunità?
Di opportunità ce ne sono, ma non tante quanto ce ne sarebbe bisogno. Piano piano si sta aprendo il varco per raccontare certe cose con sensibilità e non con pietismo, come spesso fa la televisione. Io preferisco raccontare le storie per la loro forza, per la loro capacità di lasciare il segno. Invece spesso in televisione questo avviene in maniera edulcorata. In questi anni ho dovuto imporre un modello televisivo in grado di farmi entrare pienamente dentro le storie perché a volte la TV è distratta, dovrebbe essere più attenta a quello che le succede intorno.
Reputi che si sia fatto abbastanza a livello legislativo per rispettare i bisogni e i diritti delle persone disabili?
No, non si è fatto abbastanza, siamo ancora indietro. Dobbiamo immaginare il mondo in maniera più inclusiva, lavorando innanzitutto sulla capacità di dare assistenza anche alle famiglie, non soltanto ai soggetti con disabilità, perché spesso si fanno carico di compiti che dovrebbero essere delegati allo Stato. Ma bisogna lavorare anche a una spinta di inclusione. Noi abbiamo il dovere, come società, di includere. Non possiamo lasciare indietro nessuno anche perché l’idea che qualcuno possa essere un disvalore nel mondo del lavoro è una banalità. Imprenditori illuminati stanno cercando di imporre un nuovo modello lavorativo in cui ci sia spazio per tutti, non solo per manifestare il proprio estro ma anche la propria capacità lavorativa senza dover per forza rispecchiare un modello specifico. Ebbene, su questo bisognerebbe molto lavorare.
Ci sono storie non raccontate che avresti voglia di far conoscere o che hai in programma di narrare in futuro?
Ce ne sono tante, le storie sono come dei piccoli ruscelli, tu li trovi poi diventano dei fiumi. Io vorrei confondere i livelli della disabilità e della giovinezza senza fare distinzioni, perché in quell’età siamo tutti fragili. Ho avuto la fortuna di lavorare con il grande musicista Ezio Bosso che nell’ultima parte della sua vita ha avuto seri problemi di salute e lui diceva “Siamo tutti un po’ fragili”, e non è vero quando qualcuno dice di sentirsi più forte degli altri. Tutti abbiamo bisogno di aiuto, con questo messaggio ti dico che voglio raccontare le storie dove c’è la fragilità ma dove ci possiamo riconoscere anche noi.
Che cosa intendi tu per inclusione? Hai avuto esperienze dove effettivamente l’inclusione si può mettere in pratica?
Per me includere significa soprattutto accogliere senza pregiudizio. Se nell’inclusione crei una distinzione questo crea già un livello, a me piace pensare che il mondo includa senza giudicare, senza creare differenze di sorta. Penso che ci siano degli esperimenti, come il Teatro Patologico, dove c’è inclusione a tutti i livelli perché in quel caso gli attori non riempiono solo uno spazio per fare un’attività ludica, ma sono attori a tutti gli effetti, e sono anche molto rigorosi. Per me quello è un modello inclusivo, in cui il loro teatro non è diverso dal teatro delle grandi star, sono allo stesso modo straordinari, il pubblico quando va a teatro li applaude allo stesso modo. Per me quello è un modello di inclusione non forzato, in cui non c’è giudizio e in cui viene vista la bellezza degli altri.
Si è espressa sul concetto di “inclusione” anche la redazione di Jolly Roger, a partire da Pietro, storico operatore di IdeaPrisma82 che è la capofila del progetto Aracne - La rete che include, grazie a cui è possibile realizzare la trasmissione. Per lui si tratta di stare sullo stesso piano, lontano dai pregiudizi e soprattutto dal buonismo che è un’arma a doppio taglio. “Inclusione è Jolly Roger”, ha concluso, “una realtà in cui siamo tutti sullo stesso livello, conoscendo i ragazzi diamo loro un’opportunità, cioè raccontarsi tramite la radio”. Ma l’inclusione non deve essere necessariamente consistere in progetti grandiosi: per Luca, uno dei giovani speaker di Jolly Roger, ad esempio, inclusione è andare a mangiarsi un kebab con un compagno di scuola.