Musica

So che sai che un giorno cambierà

Quando l’uomo chiede A.I.U.T.O. è la musica che risponde

07 novembre 2011di Maria Caterina Temperini, 18 anni

L’accento, inconfondibilmente del nord, è quello di “GM”, all’anagrafe Gian Maria Accusani, noto ai più come chitarrista, cantante e compositore dei Prozac+, uno dei gruppi più in voga dell’underground nostrano. Lo incontriamo, però, per i Sick Tamburo, di cui è membro insieme ad Elisabetta Imelio, già componente Prozac.
Il 4 novembre è la data ufficiale dell’uscita del nuovo album, A.I.U.T.O. Stato emotivo attuale?
«Non vediamo l’ora! Sono mesi e mesi che lavoriamo sul disco e siamo impazienti di vedere il risultato e le reazioni del pubblico!».
In base a cosa avete scelto il singolo? Forse perché “E so che sai che un giorno cambierà” è il pezzo più orecchiabile dell’album?
«In realtà, ci è stato consigliato dalla nostra etichetta, La tempesta dischi. A loro è piaciuto molto perché è un pezzo che appare subito diverso dal resto del disco e, proprio perché si differenzia dall’album, lo abbiamo scelto per promuovere A.I.U.T.O.».
I Sick nascono dalle ceneri dei Prozac+ o si tratta di un progetto parallelo intrapreso solo da Gian Maria ed Elisabetta (due dei tre componenti originari dei Prozac+, ndr)?
«Non ci sono, per ora, le ceneri dei Prozac. Siamo fermi, ma non si è ancora parlato di fine! I Sick, semplicemente, sono un progetto parallelo».
Per cosa sta “Sick Tamburo”?
«Nulla di particolare. Mi intrigava quest’accostamento di termini: Sick, malato in inglese, e Tamburo. Era il nome che avevo scelto per un altro progetto musicale, ma poi è piaciuto così tanto a Elisabetta che di fatto ha costituito il nome del nostro duo. Tamburo malato, niente più!».
A.I.U.T.O contiene quattro tracce cantate da Gian Maria. In base a cosa decidete chi dei due canta?
«Di norma io scrivo ed Elisabetta canta. Dunque, quando compongo, lo faccio pensando a lei, scrivendo testi che possano adattarsi alla sua voce. Può accadere, però, che, canticchiando i testi per buttarli giù, mi accorga che stanno meglio con la mia e decida di cantarli io. Non c’è una regola fissa, seguiamo l’istinto; si adattano perfettamente alla sua voce? Bene, li canta lei. Altrimenti subentro io…»
Tantissima attualità in A.I.U.T.O: sfogo personale o tentativo di presa sul pubblico, specie sulle nuove generazioni?
«Non si scrivono mai canzoni e album per cercare di far presa, o almeno spero che così non facciano gli altri. È una considerazione rispetto a come stanno andando le cose nel mondo. A.I.U.T.O è un puzzle di storie che vedono l’uomo come protagonista. L’uomo che fa sempre gli stessi sbagli, che provoca i soliti mali e poi chiede di essere aiutato. Ecco, in questo senso A.I.U.T.O.».
Le esperienze raccontate nell’album le avete vissute sulla pelle?
«Nel disco c’è di tutto: esperienze personali o vissute passivamente perché ci siamo ritrovati ad essere vicini ad una persona impigliata in questo o in quell’altro problema; storie raccontate o viste, ascoltate: un miscuglio eterogeneo di tutto questo».
In quella televisione che voi definite, a giusto titolo, pericolosa e dittatrice dei must e dell’etica di comportamento sociale, c’è almeno un programma che seguite?
«Onestamente non ne possiedo nemmeno una. La guardo molto poco e se mi succede è perché sono in casa d’altri, non ho questo gran rapporto con la televisione, ecco. Ed è questo distacco che mi ha permesso di assumere un punto di vista oggettivo, necessario per comporre il pezzo. Probabilmente, se fossi in possesso di una televisione, ne sarei “drogato” anche io e non potrei fare certe considerazioni; distaccandotene, ti rendi conto dell’infinità di modi alternativi con cui puoi sfruttare quel tempo. Con questo non voglio dire che attualmente non venga trasmesso nulla a cui valga la pena dare un’occhiata, semplicemente… non posso saperlo! E non mi interessa».
Per il pezzo “Si muore di AIDS nel 2023”, oltre che all’attualità, vi siete ispirati alla nota poesia di Martha Medeiros “Lentamente muore”, quella che è stata vittima del caso di falsa attribuzione a Neruda.
«Per l’ispirazione di quel pezzo ci è bastato guardarci un po’ intorno, fare una considerazione sull’attualità e riflettere sul fatto che, pur essendo così avanti nel tempo e nel progresso, c’è ingiustizia ovunque. Unica consolazione, o rammarico, è che non importa quale sia la nostra occupazione, il nostro grado sociale, c’è una cosa che non riusciremo mai a contrastare. Banalizzando, belli e brutti, ricchi e poveri, ci attende un’unica fine.

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